Andria Attualità
letto: 1089 volte 22 aprile 2022 Non raggiunti il minimo di 3 voti.
Ho apprezzato molto l’articolo di don Geremia e, in tutta sincerità, lo condivido pienamente su tutta la linea – approfitto dell’occasione per consigliare a tutti di leggerlo. Viviamo in una città dove l’ostentazione della ricchezza materiale supera non solo la sua reale controfigura ma svilisce quella che potremmo definire quale “ricchezza valoriale” del singolo individuo e, in senso più ampio, della comunità cui esso appartiene.
Mi permetto di fare solo alcune considerazioni.
Sono un ragazzo di 24 anni, vivo nel Nord Italia da diverso tempo ma ho avuto modo di frequentare la città molto da vicino in tempi di pandemia. Come tanti altri miei coetanei, esuli e non di questa nostra sciagurata terra natia, siamo tra quelle che lo scrittore ha definito “vittime di lavori non retribuiti e non riconosciuti”: categoria per la quale sento di essere appartenuto nei miei anni ad Andria e causa per cui moltissimi altri ragazzi andriesi, più e meno giovani di me, lasciano il proprio paese d’origine alla ricerca di una realizzazione umana – ancor prima che professionale – riconoscente ed economicamente giusta e adeguata. Ma non sono qui a scrivere per vittimismo, ormai la speranza di ritornare a casa l’ho abbandonata da un pezzo. E, non me ne voglia nessuno, ma questa profonda rassegnazione investe praticamente qualsiasi ottimistica previsione di poter assistere al minimo cambiamento in questa città che continua a invecchiare in idee, proposte, propositi e popolazione. Sono passati tre anni da quando iniziavo a scrivere queste cose sul mio primo articolo e, pandemia a parte, credo che il fenomeno non abbia conosciuto alcun rallentamento, anzi.
Per tornare ai temi di cui stavamo discutendo, non posso pensare che il problema della comunità andriese insti esclusivamente sulla “non dichiarazione” di talune ricchezze o patrimoni. Perché, e ciò non vuole assolutamente essere un attenuante, ci sono svariate categorie che si trovano quasi costrette a dover fare dichiarazioni fasulle e non per potersi permettere le vacanze a Ferragosto ma semplicemente per far sì che i propri figli possano condurre una vita dignitosa o che si possa dare una busta paga ai propri operai. Lo ripeto, non è una giustificazione ma è giusto altresì contestualizzare il fenomeno e non fare di tutta un’erba un fascio. Premetto che sono figlio di operai, provengo da una famiglia onesta che non ha mai evaso una lira allo Stato e, adesso che una busta paga vera – e non in nero – ce l’ho pure io, pago le tasse allo stesso modo e con ciò che mi avanza non conduco la vita di un pascià, anzi. Semmai dovessi pensare di mettere su famiglia domani mattina, certo potrei permettermela ma i sacrifici dovrei farli eccome. Ripeto, non per vittimismo ma per scongiurare una volta per tutte il mito dell’andriese fuori che pare si faccia i miliardi perché “al Nord pagano bene”. La mia famiglia mi ha insegnato che realizzarsi e crescere dei figli – ad Andria, con un unico stipendio da operaio e senza evadere una lira di tasse alla comunità – si può fare e non è puro miraggio. Serve solo buona volontà e predisposizione al sacrificio e, anche questo è necessario, la fortuna di poter contare su un posto di lavoro che perlomeno ti garantisca uno stipendio fisso ogni mese.
Quando sentiamo parlare di evadere allo Stato, rubare allo Stato, ci siamo mai posti la domanda: “Ma chi è questo Stato a cui sto trattenendo parte dei miei averi?” invece di porci le solite: “Perché mai devo cedere le mie ricchezze a dei vagabondi che comandano?” oppure “Perché pagare le tasse se i servizi non funzionano?”
Lo Stato non è altro che la comunità, costituita dalla moltitudine di cittadini come me e come voi che condividono la stessa nazione, lo stesso territorio, la stessa città. Togliere qualcosa allo Stato equivale a togliere una possibilità ad un nostro concittadino che di quella possibilità ha estremo bisogno per potersi curare, sostentare, sopravvivere. Qui potremmo aprire un altro bellissimo capitolo nei confronti di tutti quei non aventi diritto che, non si sa come o per quale intervento divino, riescono ad avere accesso a tutte quelle risorse che di base vengono stanziate per i veri bisognosi invece che per chi avrebbe bisogno solo di un po’ di dignità. Ma non è che questa gentaglia è proprio la stessa che fa le dichiarazioni fasulle e – risultando nullatenente, nullafacente e quant’altro – trova nella falsa dichiarazione la burocratica ragione per avere accesso a queste risorse? Non è che forse andrebbe fatto qualche controllino a chi queste dichiarazioni le sottoscrive? Ma sì, ormai non c’è neanche più il senso di scriverle ste cose, tanto ormai quale cambiamento possiamo mai aspettarci dal nostro collaudatissimo sistema?!
I servizi non funzionano perché il loro malfunzionamento è la prassi della Pubblica Amministrazione italiana o andriese nello specifico: i servizi non funzionano perché mancano i contributi previsti dalla comunità per il corretto esercizio degli stessi. Lasciamo perdere le solite discussioni da bar sullo stereotipo del dipendente pubblico che nulla fa e nulla vorrebbe fare perché la gente seria, anche nelle PA e nei servizi pubblici, esiste. Come in ogni ambiente ci sono le eccezioni, potremmo forse dire che è più facile trovarle nel pubblico, ma non esiste in tutto il tessuto socioeconomico-lavorativo italiano una singola azienda in cui non vi è lo scansafatiche di turno.
La brutta abitudine di molti è quella di vedere sempre chi sta meglio; ad Andria invece c’è la degenerazione di questa tendenza che è quella di vedere chi sta meglio e ottiene quella condizione di benessere con gli espedienti dell’inganno e della furbizia. Perciò i nostri miti non sono gli onesti cittadini o i laboriosi dipendenti (pubblici e privati) ma il posto fisso che bara il concorso a suon di “raccomandazioni”, il dipendente comunale/consigliere/assessore che mette in saccoccia il suo discreto stipendio pubblico senza profondere il commisurato impegno richiesto, l’imprenditore che grazie al commercialista “buono” evade le tasse allegramente. Io stesso sono cresciuto in alcuni di questi miti e ho scoperto, a mie spese, che queste figure esistono e che non potrei mai aspirare ad entrare in questo club d’élite perché evidentemente non possiedo le giuste referenze o le skills richieste per l’esercizio di codeste funzioni. Ringrazio il Signore ogni giorno per non avermi concesso queste “fortune” perché è così che ho scoperto il vero significato dei sacrifici e del lavoro onesto.
Come già don Geremia ha menzionato nel suo articolo, è un problema pagare le tasse – specie quando chi può pagarle lo può fare senza troppi patemi. Casualmente, questa gente molte volte è la stessa che sfrutta la manodopera in nero e non applica i richiesti standard di sicurezza nelle sue aziende (P.S. gli incidenti sul lavoro sono all’ordine del giorno nella nostra città e basta rinfrescarsi di poco la memoria per ricordarci delle vittime innocenti nei nostri campi e sulle nostre strade). Se pensiamo che questa gente facoltosa ha anche una discreta influenza negli iter decisionali della comunità e nella sponsorizzazione di talune figure politiche in prossimità delle campagne elettorali, non dobbiamo stupirci se nelle giunte comunali che si sono susseguite negli anni ci siamo ritrovati consiglieri o assessori indagati e condannati a vario titolo. La mela non casca mai lontana dall’albero.
Caro don Geremia, lo vuole sapere cosa penserebbe l’andriese medio del suo articolo e, mi permetta, forse anche di questo che sto scrivendo io? Glielo dico subito, perché ne conosco tanti come li conosce anche lei: “Facile parlare per lui. Che ne sa degli sforzi che si fanno per arrivare a fine mese? Ce l’avesse lui una famiglia da mantenere come ce l’ho io! Perché non viene a farsi il cosiddetto con me nei campi, a farsi sfruttare e a sputare il sangue? Se saprebbe almeno una di queste cose, predicherebbe di meno e razzolerebbe di più”. Non le nascondo che ci ho inserito alcune delle reazioni che alcuni miei conoscenti hanno avuto a leggere il suo articolo e che, indirettamente, hanno portato quest’ultimo alla mia attenzione.
Mi perdoni se conosco gente che evidentemente ha delle visioni limitate però queste reazioni la dicono lunga su quello che è il malessere di questa comunità. Non nascondiamocelo, ci sono ampie fette della nostra popolazione che il significato di comunità non lo sanno nemmeno e né tantomeno si sforzano di comprenderlo. Nella società andriese in cui vige la regola del “si salvi chi può”, non c’è spazio per la comunità, per l’altro, per il prossimo, per il bisognoso. Se posso, ne approfitto: questo è l’imperativo. “Lo fanno tutti, perché non dovrei farlo pure io” si direbbe. Ecco, queste riflessioni rimandano a dei problemi insiti nel nostro tessuto sociale che vedono nel fenomeno delle dichiarazioni fasulle solo la punta dell’iceberg di una società malandata in cui la disperazione, la rassegnazione e il primordiale istinto di emulare il benestante per non essergli da meno sopraffanno la coscienza del buon cristiano e onesto cittadino, tanto per citare uno degli insegnamenti che da piccolo mi hanno trasmesso i Padri salesiani. Non c’è spazio per il rinnovamento, per la riscoperta dei valori e delle tradizioni che le precedenti generazioni hanno incarnato e grazie alle quali hanno fatto la fortuna di ciò che noi abbiamo ereditato oggi. I tempi corrono ma sembra che in questa città siamo più vecchi del cucco.
Voglio concludere con qualche spunto positivo: leggo nelle parole di don Geremia l’invito a spogliarsi delle apparenze e ad agire con opere concrete per il bene della comunità. Parole sante, dovrebbero risuonare quasi fosse un dovere di tutti, piccoli e grandi, ricchi e meno ricchi, uomini e donne, nessuno escluso. Penso che dovremmo iniziare a guardare chi sta peggio di noi invece che continuare ad inseguire il falso mito di una ricchezza materiale fine a sé stessa. Abbiamo la fortuna di essere nati in un posto in cui, chi più e chi meno, abbiamo avuto tutto dalla vita: una famiglia, un’infanzia decorosa, possibilità d’istruzione, servizi essenziali, un lavoro. Facciamoci perdonare tutta questa fortuna da chi purtroppo non ne ha avuta abbastanza e, fidatevi, sono molti ma molti di più di quelli che stanno meglio di noi. Un po’ di tempo fa qualcuno ci esortava ad amare il nostro prossimo e su questo ci ha costruito un comandamento che è alla base di un intero credo religioso, lo stesso per cui festeggiamo le domeniche e le sacre festività, non per ultima quella di Pasqua: se riscoprissimo un briciolo di amore fraterno nella nostra comunità forse ci sarebbero meno disuguaglianze e più risorse per tutti.